Le autorità iraniane hanno intensificato gli attacchi contro i giornalisti in risposta all’ondata di proteste di massa in tutto il Paese. Trentasette i giornalisti dietro le sbarre in Iran, 23 dei quali a causa di una nuova ondata di repressione nei loro confronti. Bloccato l’accesso a Instagram, WhatsApp, LinkedIn e Skype. Ma sul dark web la resistenza s’organizza per aggirare le restrizione del regime. E gli hacktivisti colpiscono agenzie statali e siti dei leader iraniani.
Aumenta il numero dei giornalisti in prigione dopo la nuova ondata di repressione in Iran, aumenta la censura a web, server e social. Il giornalista di Ham-Mihan Elahe Mohammadi, che aveva seguito i funerali di Mahsa Amini, è stato arrestato alcuni giorni fa. Inoltre, fonti di RSF hanno confermato la detenzione di altri tre giornalisti, Aria Jafari, fotoreporter dell’ISNA, Mohsen Rawari e Mohsen Ahmadizadeh, reporter locali della città di Jiroft, nella provincia sudorientale di Kerman, arrestati la scorsa settimana. Il numero dei nuovi giornalisti detenuti nelle carceri iraniane è ora di 23 su un totale di 37 giornalisti in carcere.
Giornalisti minacciati e arrestati
A Teheran, o nelle città di Qazvin, Rasht, Amol (Iran settentrionale) e Ahvaz (capoluogo della provincia sudoccidentale del Khuzestan), le autorità hanno convocato e minacciato decine di giornalisti, intimando loro di smettere di pubblicare articoli sulle proteste sui loro organi di informazione e sui loro social network personali come Facebook, Twitter e Instagram. Tre dei giornalisti detenuti, Masoud Kordpour, Marzia Talayi e Ali Khatibzadeh, lavorano per l’agenzia di stampa Mukrian. Anche Nilufar Hamedi, giornalista del quotidiano Shargh che ha visitato l’ospedale dove Mahsa Amini era in coma prima di morire e che ha contribuito a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla sua sorte, è detenuta in seguito a un’irruzione delle forze di sicurezza iraniane nella sua casa giovedì 22 settembre. Farshid Ghorbanpour, giornalista di Haft-e-Sobh è stato arrestato dalle forze di sicurezza in un raid nella sua casa intorno alle 4 del mattino di domenica 25 settembre. Le autorità iraniane hanno intensificato gli attacchi contro i giornalisti in risposta all’ondata di proteste di massa in tutto il Paese a partire dal 16 settembre, quando Mahsa Amini, una donna curda iraniana di 22 anni, è morta in custodia dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per “aver indossato abiti inappropriati”.
Internet e social fuori uso
Dall’inizio delle proteste, la Repubblica Islamica dell’Iran ha bloccato l’accesso a Instagram, WhatsApp, LinkedIn e Skype, le ultime grandi piattaforme occidentali ancora accessibili in Iran. Il governo ha anche interrotto l’accesso a Internet nel Paese. Internet è stato completamente interrotto nella provincia occidentale iraniana del Kurdistan, dove Mahsa Amini è nata e dove si sono svolte le prime proteste. Altre grandi città, tra cui Teheran, hanno segnalato parziali restrizioni a Internet. Dodici giorni dopo l’inizio delle proteste, Internet è ancora interrotto quotidianamente in tutto il Paese. Il governo sta bloccando i server DNS (“domain name system”) del Paese, essenziali per garantire la connessione alla rete globale, nonché molti siti web e server VPN (“virtual private network”), gli unici strumenti in grado di contrastare efficacemente i blocchi. Anche l’internet mobile è nel mirino del governo ed è stato colpito duramente. Inoltre, sia Google Play che l’App Store di Apple sono stati bloccati. Entrambe le piattaforme forniscono servizi e prodotti strategici per aggirare la censura, soprattutto perché il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha alleggerito le sanzioni contro l’Iran per consentire alle aziende statunitensi di fornire i servizi necessari a mantenere stabile Internet. Il blocco di questi negozi di app impedisce agli iraniani di accedere alle VPN per i loro dispositivi mobili con interfacce semplici.
La resistenza s’organizza sul dark web, su Signal e Telegram
L’applicazione Signal, concorrente di WhatsApp, ha pubblicato il 23 settembre una guida tecnica per aiutare le persone a riconnettersi a Signal (la messaggistica crittografata end-to-end è bloccata anche in Iran) ospitando un server proxy. Gli Stati Uniti hanno deciso di modificare la portata delle loro sanzioni contro l’Iran, in modo che Starlink – il provider internet statunitense che utilizza i satelliti per collegare le persone – possa operare in Iran e gli utenti di internet non possano essere tagliati fuori dal regime. Si cominciano a vedere anche operazioni molto più offensive come attacchi DDOS (Distributed Denial of Service) che colpiscono agenzie statali e i siti dei leader iraniani. Gruppi di hacktivisti utilizzano Telegram, Signal e il dark web per aiutare i manifestanti antigovernativi in Iran ad aggirare le restrizioni del regime. E non si tratta di ripristinare Internet, ma di colpire i funzionari del regime e le persone che lavorano nell’apparato statale iraniano. Altri forniscono anche strumenti per aggirare la censura. Su Telegram, ad esempio, il gruppo Atlas, composto da 900 membri, si concentra sulla fuga di dati, come numeri di telefono ed e-mail di funzionari. Si occupa anche di mappe di luoghi sensibili. Lo stesso vale per Arvin, un altro gruppo su Telegram, che conta 5.000 membri, e RedBlue, che ha 4.000 membri sulla piattaforma. Le restrizioni che colpiscono l’internet iraniano sono considerate le più gravi dal 2019.